Il lunedì mattina è un giorno tragico per tutti.
Dopo la pausa domenicale si è costretti a rientrare nel vortice del lavoro. Lunedì è il primo giorno della settimana e, se si deve andare a Roma, oggi grazie ai treni superveloci, la cosa può essere fatta in giornata. Il treno diventa un ufficio, dove è possibile riordinare quelle idee che la domenica ha scompaginato.
Capita anche che l’alta velocità si inceppi e non vada come dovrebbe. Capita qualche ritardo, anche se era più comune all’inizio della nuova avventura. Ora il treno che collega le due capitali del paese è quanto una linea metropolitana, dove si sta seduti comodamente e, in poco più di tre ore, si sale a Centrale e si scende a Termini.
Quando viaggio e smetto l’ufficio, osservo chi mi circonda e ne ricamo spunti curiosi. È l’unico passatempo di un viaggio che non ha modo di diventare noioso, visto quanto dura poco.
Non sono un pettegolo che attacca bottone col prossimo, ho i miei riti da osservare e non gradisco i disturbi. Dopo e prima dell’ufficio, leggo il giornale fino agli annunci economici e solo a metà del viaggio osservo chi mi sta nei pressi. Prendo anche degli appunti, per capire chi possa trovarsi a viaggiare con me. Non mi interessa parlare con i vicini, perché ho il mio daffare e se cerco di capire chi ci sia intorno lo faccio sbirciando che ha indosso o appresso. Per carpirne i segreti in modo educato, senza entrare nel privato altrui, perché se qualcuno entrasse nel mio mi darebbe parecchio fastidio.
Le occasioni in cui la gente parla agli estranei sono poche, accade quando il treno si ferma per qualche guasto o se il ritardo va oltre il fisiologico. Uno comincia a brontolare a bassa voce, poi a voce più alta aggiunge: “Farò tardi al ministero”. In questo modo si capisce che è un funzionario statale, la vecchietta sta andando dal figlio, i due di fronte in udienza dal Papa. Fino a pochi attimi prima tutti stavano muti nei fatti propri, poi succede l’inconveniente e la gente si apre. Per fortuna accade di rado.
“Il treno parte in orario?” E’ l’unica domanda che faccio al capotreno prima di salire in vettura, per poi stare zitto oltre tre ore.
In prima classe c’è la presa di corrente per lavorare al computer e posti più larghi e comodi. Nessuno parla, né chiede qualcosa, perché i posti sono prenotati e il classico ‘libero?’ dei treni regionali qui non è necessario.
Si rischia di viaggiare tre ore in compagnia di estranei senza sentirne la voce o sapere chi siano. Anzi, c’è una specie di mutuo accordo per cui nessuno parla o chiede a chi viaggia accanto chi sia o che faccia. Un viaggio veloce in mezzo alla gente nel silenzio totale, se tutto funziona in modo regolare.
Qualche volta uno chiede ‘permesso’ se deve andare al bagno, ma succede di rado e disturba il tranquillo procedere. Il rumore del treno soffoca il brusio di fondo e il tenue chiacchiericcio che fa talvolta qualcuno che viaggia in compagnia. Succede di rado perché è un viaggio che costa e poco utilizzato a chi faccia turismo, sempre che non sia una comitiva di giapponesi che girano in tre notti l’Italia da Napoli a Venezia. Chi viaggia da solo non parla e si fa, come faccio io, gli affari propri.
“Scusi, è questa la carrozza numero quattro?” C’è sempre qualcuno che non capisce niente e sale sulla prima carrozza che trova alla stazione per chiedere ogni tre persone quale sia la sua. “Il posto 28?” Trovata la carrozza il solito che non capisce in che mondo stia deve trovare il proprio posto. “Scusi ma quello dovrebbe essere il mio posto a sedere.” C’è sempre chi si improvvisa viaggiatore e si siede al posto sette nella carrozza quattro, mentre dovrebbe stare al posto quattro nella carrozza sette. Tutto questo rappresenta il massimo della trasgressione a bordo di un treno, che sembra una metropolitana che viaggia come un aereo. E in genere sono le uniche parole che sento, o che dico in un mondo di gente che ama farsi gli affari propri. “Questa è la carrozza quattro.”
Ogni tanto qualcuno arriva al proprio posto a treno avviato, perché il rito della carrozza sbagliata si riverbera per chilometri. Così svanisce la speranza di non avere nessuno di fronte.
Davanti a me questa volta sta seduta una suora e in questo caso il gioco è facile. Suora, Roma, percorso indovinato. Nessuna indicazione della congregazione, non ce l’hanno scritto sulla veste come i militari e io le suore le vedo tutte uguali. Due viaggi fa ce n’era uno con la sua mimetica, il cognome scritto sull’etichetta cucita sul petto, meridionale. Era di una brigata alpina, ufficiale.
Un alpino del sud, ormai sono tutti del sud, l’esercito diventa un posto che offre lavoro dove più se ne cerca. Io i gradi non li conosco, però riconosco il cappello degli alpini e se uno mi si siede davanti in divisa, con anfibi e mimetica, capisco da me che viene dai forti di montagna per la piuma che ha sul cappello. Se è bianca, lo diceva mio nonno, è un pezzo grosso.
Questa volta c’è la suora, con il suo abito lungo, nero e casto. Così abbigliata non riesco a darle un’età né a capire se sia una bellezza sprecata dal voto. E’ davvero strano, viaggio sempre con di fronte della gente in divisa. Se non è un militare è una religiosa. Meglio così, perché dall’altra parte del corridoio, nel posto corrispondente alla monaca, ci sta uno schianto di femmina, con una gonnellina anche corta e un aspetto da bella ragazza in carriera. Avrei avuto difficoltà a celare lo sguardo e i pensieri, se vi fossi stato seduto di fronte. Le belle gambe della ragazza dall’altro lato mi avrebbero interrotto il lavoro e avvelenato i pensieri.
Per avere attenzione sull’ufficio e il giornale è meglio la suora, che legge un libro con la copertina di pelle nera e la carta sottile bordata di rosso. Sembra quel breviario che hanno i parroci di campagna, mentre la giovane ragazza dall’altra parte sfoglia un giornale finanziario in lingua inglese.
Allora ho pensato al mio gioco, che consiste nel cercare di dare un volto e un motivo a chi mi sta nei pressi. Tolto il mio, i posti a sedere sono cinque, uno occupato dalla suora che ho detto e gli altri dalla bella donna in carriera e da altre tre persone.
La donna è mora, con un viso aggraziato, vestita elegante come una da ufficio. Ora è al telefono e parla sottovoce, tanto da non farsi sentire. È un bisbiglio e non riesco a capire in che lingua stia colloquiando. Però chiude la telefonata contrariata, senza un sorriso o un accenno di assenso. Butta il telefono sul tavolino davanti in maniera rabbiosa. Viaggia da sola, lavora e telefona senza mostrare di essere una donna felice.
“Non era il fidanzato, perché se lo fosse ora non lo è più.” Ho pensato tra me all’inizio del gioco. Sull’agenda ho scritto: ‘donna, cultura medio alta, in carriera, single’, le altre voci, nazionalità, professione, motivo del viaggio, le scoprirò osservandone con circospezione i modi di fare.
Continuo ad osservarla rischiando di farmi scoprire, senza riuscire a capire quanto sia alta e soprattutto se sia perfetta, perché è seduta e lavora al computer, intervallando il lavoro e il telefono con letture d’alta finanza.
Immagino che sia una professionista che va a Roma per …… |